di Israël Adler
È stato trovato un numero relativamente elevato di testimonianze sull’atteggiamento rabbinico nei confronti della musica, sparse nella letteratura talmudica, midrashica e rabbinica.
Dall’inizio del periodo talmudico si può osservare un atteggiamento riservato, che talvolta si spinge fino all’opposizione radicale a qualsiasi manifestazione musicale. Questo atteggiamento è principalmente motivato dal lutto seguito alla distruzione del Tempio nell’anno 70 dell’era cristiana. Benché sia probabile che tale riserva esprimesse i sentimenti profondi delle autorità ebraiche solo nel periodo tannaitico, prossimo all’evento storico che causò il lutto, ma di cui si possono, invece, far risalire origini più lontane a questa opposizione, resta il fatto che questo ricordo del lutto nazionale appare per tutto il medioevo e fino ai tempi moderni come motivo di restrizione della pratica musicale.
Ritroviamo infatti questa motivazione nel grande Codice di Maimonide (1170-80) e più tardi ancora, nell’ultima codificazione rabbinica accettata come norma dall’ebraismo di tutta la diaspora, lo Shulhan ‘arûk di Joseph Caro, databile della metà del XVI secolo secolo. Un’amplificazione di questo stesso tema va vista nelle restrizioni che periodicamente colpiscono la pratica musicale in alcuni centri ebraici a seguito di un disastro locale. Questo è particolarmente vero nell’Europa orientale dopo gli spaventosi massacri degli ebrei da parte del capo cosacco Chmielnicki nel 1648.
Accanto a questo genere di ragioni di carattere esterno, legate ad eventi storici, la dottrina di base sulla musica è fissata secondo considerazioni di ordine etico. Queste considerazioni, del resto, non hanno nessun punto in comune con la dottrina greca dell’Ethos che si troverà tuttavia trapiantata, attraverso teorici arabi, negli scritti di un certo numero di autori ebrei del medioevo, compresi importanti autorità rabbiniche. La dottrina talmudica, come appare attraverso le varie massime dei dottori del Talmud e del Midrash, si occupa quasi esclusivamente del carattere funzionale della musica; solo una musica che svolge una funzione religiosa è veramente consentita e incoraggiata; sono tollerate alcune categorie di canti per il lavoro, mentre altre, ritenute licenziose, sono vietate, nonché, in varia misura, qualsiasi pratica musicale profana il cui carattere frivolo e sensuale sia considerato incompatibile con le esigenze della vita di santità che incombe agli ebrei.
A questa fondamentale divisione in musica religiosa – l’unica consentita – e musica profana, vietata in linea di principio, si aggiungono alcune sfumature: così, nella pratica profana, la musica strumentale sembra più severamente condannata della musica vocale; d’altronde, le autorità rabbiniche, particolarmente attente ai pericoli della dissolutezza in occasione dei banchetti, protestano soprattutto contro la seduzione del canto femminile.
Le fonti rabbiniche successive al Talmud non fanno che confermare e chiarire questa divisione funzionale della musica a seconda che serva ad uno scopo laico o religioso, apparentemente senza preoccuparsi del “linguaggio” musicale. Le decisioni dei capi delle accademie babilonesi che vanno in questa direzione trovano un’autorità decisiva nell’importante compendio talmudico di Issac Alfasi nordafricano (1013-1103). Questa posizione ufficiale che ammette la musica per “cantare le lodi” di Dio avrà ormai forza di legge e sarà spesso opposta dai difensori della pratica musicale religiosa ai “bigotti” detrattori di questa pratica.
Maimonide (1135-1204), il cui atteggiamento negativo nei confronti della pratica musicale è stato più volte notato, non intende in alcun modo opporsi, nel suo famoso Responsum sulla musica – in cui, peraltro, cita un passo dell’Alfasi – ad una pratica musicale religiosa. Questo è ciò che indica chiaramente all’inizio della sua risposta alla domanda se sia consentito cantare canzoni arabe e praticare la musica in generale: divieto radicale di qualsiasi pratica musicale, vocale o strumentale, «fatta eccezione per la preghiera [dove la musica] aiuta e risveglia l’anima alla gioia e alla tristezza”. Se nel suo grande codice mishneh tôrah Maimonide evoca il lutto per la distruzione del Tempio, qui non se ne fa menzione. La ragione che adduce per la sua opposizione alla musica profana è l’esigenza per Israele di essere un “popolo santo”. Qualsiasi attività che non tende a questo obiettivo deve essere scartata. Le sfumature di apprezzamento verso le diverse forme di pratica musicale che abbiamo già notato nella letteratura talmudica si ritrovano qui, ma continua a non esserci nessuna allusione ad una differenziazione interna riguardo al « linguaggio » musicale.
Dopo aver ricordato che non c’è differenza tra l’uso della lingua ebraica e quello della lingua araba e che l’unico criterio che determina l’ammissibilità o il divieto della pratica musicale è la funzione (religiosa o profana) di tale pratica, «l’obiettivo che si vuole raggiungere”, Maimonide enumera i cinque divieti insiti nella pratica musicale profana e che vanno, senza dubbio, intesi come andanti dal meno grave al più grave:
- il testo profano in se stesso;
- canto vocale;
- quest’ultimo con accompagnamento strumentale;
- quest’ultimo accompagnato da degustazione di vini;
- voce femminile.
A seconda delle regioni, delle epoche e delle condizioni di vita dominanti nei diversi centri ebraici, si darà un’interpretazione più o meno ampia alle nozioni di “musica religiosa” e di “musica profana”.
Come regola generale, si può osservare che questa pratica musicale religiosa, ammessa dai rabbini, non è mai stata confinata alla liturgia stessa. Nelle feste e nei banchetti legati ad una prescrizione religiosa (“se’uddat miswah”), in particolare in occasione di una circoncisione, di un matrimonio, della festa carnevalesca di Purim, la musica non solo era consentita ma prescritta. Posto che qualsiasi evento culturale in ambito ebraico, per essere lecito, doveva necessariamente comportare un carattere religioso, l’assenza di rigide normative rabbiniche apriva la porta agli amanti della musica delle diverse comunità ebraiche a praticare la musica secondo i propri gusti ed i mezzi musicali a loro disposizione. È interessante notare anche questa stessa mancanza di regolamentazione per quanto riguarda il posto, all’interno della funzione liturgica vera e propria, di quella che viene chiamata “musica” e che designa, secondo le regioni e le epoche, il canto stilizzato dell’hazzan (cantore) con o senza l’aggiunta di meshôrerîm, l’impiego di cori, se non addirittura di strumenti, in breve, della musica ricercata.
È necessario notare ancora un punto più generale che ha motivato un atteggiamento rabbinico riservato nei confronti della pratica musicale. La preoccupazione di preservare l’ebreo da ogni contagio con una pratica di “adorazione straniera” (‘avodah zarah), si è trovata amplificata nella legislazione rabbinica dal divieto di abbracciare le “usanze dei gentili” (huqqat hag -goy). L’assimilazione della musica ad un tale huqqat hag-gôy è particolarmente significativa nell’ambito dell’Occidente cristiano dove l’evoluzione della musica nel Medioevo era strettamente legata alla Chiesa. Si può osservare un esempio di questo atteggiamento di riservatezza, che non rinnega la “musica” in quanto tale, ma che esprime il timore di favorire o avvicinarsi al “culto straniero”, nel responsum di un talmudista tedesco, Israel Isserlein (1390 -1460): consultato per appurare se fosse ammissibile la vendita di libri “non idonei” a un chierico, Isserlein risponde: se il venditore ebreo sa che si tratta di « uno dei loro libri di culto che usano per cantare e per le funzioni di culto straniero », questa vendita è illecita; se, invece, il venditore non è a conoscenza della natura del libro, l’operazione è ammissibile perché è probabile – e in tal caso è sufficiente la probabilità – che si tratti di un’opera facente parte «della maggior parte dei loro libri » che sono opere di giurisprudenza, medicina, scienze matematiche e musica.
Si può quindi notare che l’estrema precauzione qui adottata per evitare anche un briciolo di apporto ebraico al culto cristiano, la cui evocazione è automaticamente associata alla pratica musicale del “culto straniero”, non ha ovviamente alcun rapporto con un’avversione per la musica , poiché in questa stessa fonte è dichiarato lecito il commercio di un trattato musicale, senza apparente collegamento con il “culto straniero”.
Questa preoccupazione rabbinica di preservare il più possibile l’ebraismo da ogni contatto con il “culto straniero” è ovviamente molto più pronunciata quando si tratta di lottare contro il prestito di melodie straniere, ed in particolare ecclesiastiche, per servire nelle funzioni sinagogali. Si hanno testimonianze di tali pratiche (peraltro nel doppio senso: Chiesa-Sinagoga, Sinagoga-Chiesa), che suscitano le proteste del redattore del “Libro dei Giusti”, nel XIII secolo nei paesi renani. È anche uno dei temi più importanti evocati dalle fonti letterarie del XVII e XVIII secolo.
Articolo tratto dal Libro: La pratica musicale ebraica in Europa. Volume I. Pratica musicale accademica in alcune comunità ebraiche in Europa nel XVII e XVIII secolo – Israel Adler, pp 10 – 14, 1966
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